L’integrazione europea nel pensiero di Jean Thiriart e Altiero Spinelli: due visioni per un disegno tradito

Fernando Volpi

Il contesto storico

L’Europa che uscì dal Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio 1947 era un continente quasi completamente devastato dalle conseguenze dirette ed indirette del secondo conflitto mondiale e ben pochi erano i territori dove non si videro scontri, eserciti in movimento e bombardamenti. Alle devastazioni materiali si aggiunsero gli inevitabili strascichi di un conflitto che, pur avendo coinvolto nazioni di tutti i continenti, taluni hanno in seguito considerato l’ultimo capitolo di una più ampia “guerra civile europea[1]

Negli anni successivi alla pace, ed in misura marcata fino al 1989, le ripercussioni degli eventi bellici condizionarono forzatamente la vita politica ed economica dell’Europa, che divenne economicamente e finanziariamente dipendente dagli USA e dall’URSS nelle loro rispettive aree di influenza determinate a Yalta. La ricostruzione di nazioni come Germania dell’Ovest, Italia e Inghilterra passò attraverso l’UNNRA ed in particolar modo l’ERP (Piano Marshall)[2], mentre il rifiuto di adesione da parte dell’URSS divenne il primo segnale di quel clima di contrapposizione che avrebbe poi portato già dal 1948 alla nascita dei due blocchi ed alla divisione del continente in due sfere di influenza politica e militare.

Fu in questa situazione, connotata da un forte ottimismo per le prospettive di rinascita grazie all’enorme quantità di aiuti materiali e finanziari provenienti d’oltreoceano, ma anche dall’aprirsi di nuove paure innescate dal clima di tensione che andava profilandosi, che sei stati europei si ritrovarono a discutere di un progetto comune di cooperazione, con l’obbiettivo dichiarato di eliminare quegli egoismi che erano stati nel corso dei decenni tra le principali cause scatenanti dei conflitti nel vecchio continente.

Con la firma del Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), i sei stati promotori[3] non realizzarono solamente un atto economico, che aveva come scopo la creazione di un mercato comune (dunque reciprocamente controllato) di una risorsa e di un prodotto strategico, ma di fatto gettarono le basi di un’entità politica sovranazionale, con propri organi e ben determinati obbiettivi, primo fra tutti la creazione di un embrione di Stato Europeo.

La visione europeista dei sei firmatari della Ceca dovette giocoforza scontrarsi con la realpolitik dettata dalle conseguenze della Guerra Fredda, a causa della quale nazioni come l’Italia, la Germania dell’Ovest e la Spagna da una parte e Germania dell’Est, Polonia, Ungheria, Romania e Bulgaria dall’altra rimanevano addirittura al di fuori del consesso internazionale dell’ONU per i veti incrociati posti alla loro ammissione da parte delle due superpotenze[4]. Nonostante ciò, il percorso dell’integrazione economica e politica europea era ormai avviato e, di fatto, non si sarebbe più fermato.

In relazione al periodo di cui si parla, c’è un aspetto della Ceca su cui occorre fare una doverosa riflessione: essa non ebbe un suo alter nel blocco sovietico, dove se vi fu cooperazione pressoché obbligata date le contingenze, mancò una vera e propria struttura organizzata con prospettive di integrazione. L’URSS fu promotrice del Comecon nel 1949 e, in un certo senso, esso sembrò quasi anticipare gli obiettivi di cooperazione economica che mossero i sei stati della Ceca, ma successivamente ne fu allargato l’ambito a paesi asiatici ed americani, nell’ottica di quell’internazionalismo comunista che muoveva le scelte e le decisioni del Cremlino.

La Ceca non fu un fuoco di paglia dettato dalle esigenze di solidarietà dell’immediato dopoguerra. Con i Trattati di Roma del 25 marzo 1957 i sei stati fondatori istituirono la CEE e l’EURATOM, dando al processo di integrazione un impulso decisivo, che non si sarebbe più arrestato: se la Ceca costituì dunque la base di partenza, a Roma divenne chiaro al mondo intero che il cammino verso il superamento dei confini nazionali tra alcuni stati europei era ormai una solida realtà.

Nei Trattati di Roma furono codificate le regole ed i tempi di questa integrazione: nei successivi dodici anni si sarebbe dato corso a tutta una serie di provvedimenti per attuare le libertà fondamentali che il nascente Mercato Comune Europeo avrebbe portato. Con l’eliminazione dei dazi doganali, l’istituzione di una tariffa doganale unica verso l’esterno, il varo di una politica comune agricola e dei trasporti e la nascita del Fondo Sociale Europeo, si crearono così le condizioni per la libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.

Nel 1962 l’Assemblea parlamentare europea, composta da nominati dai singoli parlamenti nazionali, assunse il nome di Parlamento Europeo, organo privo di poteri effettivi e dotato di mere funzioni consultive. Nel 1979 il Parlamento Europeo venne per la prima volta eletto a seguito di consultazioni elettorali a suffragio universale in tutti i paesi aderenti (ai sei fondatori si aggiunsero nel 1973 la Danimarca, Il Regno Unito e l’Irlanda).

Il percorso integrativo non ha mai subito arresti significativi, semmai momenti di stasi e difficoltà che hanno rallentato alcuni processi e di cui vanno individuate le ragioni nella difficoltà di trovare la giusta quadratura in questioni dove le sensibilità e le esigenze dei vari stati membri erano spesso molto diverse, se non contrastanti.[5]

Possiamo inserire queste ragioni entro due macro ambiti: da una parte la sostanziale ritrosia delle classi politiche nazionali a voler cedere spazi di competenza statale ad entità sovranazionali, dall’altra le difficoltà materiali nel far coesistere realtà che fino a pochi decenni prima si erano confrontate su ben altri terreni rispetto a quello che andava ora organizzandosi (emblematico a tal proposito il fallimento della Comunità Europea di Difesa nel 1962 per l’opposizione della Francia ad una rinascita delle forze armate tedesche).

La caduta del comunismo sovietico e la conseguente riunificazione della Germania diedero un impulso significativo all’architettura europea per come oggi la conosciamo, decretando, se non di diritto ma quanto meno di fatto, una sorta di primazia da parte tedesca in molti degli ambiti decisionali della CEE prima e della UE poi.

Ma dove la Germania ha interpretato un ruolo fondamentale è stato sicuramente negli aspetti finanziari e monetari del processo di integrazione: tutta la genesi della moneta unica, della costruzione dell’organismo di governo della moneta (la BCE) e, più recentemente, il ruolo dell’ESM[6], hanno avuto nella Germania la capofila di quella visione dell’Europa che potremmo definire a trazione finanziaria.

Fatta questa breve introduzione, utile alla contestualizzazione storico-politica del processo di integrazione europea, ancor prima di mettere in evidenza le posizioni di due europeisti convinti (sebbene tra loro radicalmente distanti), va ricordato che il dibattito sull’essenza e sul futuro dell’Europa è a tutt’oggi aperto, sia nell’ambito del confronto politico all’interno dei paesi aderenti[7], quanto nel sentire comune di ampi strati di popolazione. Questo secondo aspetto, ancor più del primo, ha una sua rilevanza poiché dimostra quanto la percezione dell’Europa, intesa come casa comune dei popoli continentali, sia ormai un dato di fatto acquisito. Un fatto dal quale non si può più prescindere e che meriterebbe ben diversa considerazione da parte delle classi politiche di molti stati europei.

Jean Thiriart e la Jeune Europe: il sogno (forse) impossibile di un’Europa Nazione

Quando nel 1964 apparve “L’Europa: un Impero di 400 milioni di Uomini” la figura ed il pensiero di Jean Thiriart erano già abbastanza note, grazie alla fondazione del movimento Jeune Europe, che riuniva al suo interno una parte di quel mondo giovanile in aperto contrasto con gli indirizzi atlantisti e filo americani che stavano prendendo piede anche all’interno di molti partiti della destra europea.

Il contesto politico internazionale era quello in cui la fase più acuta della contrapposizione tra i due blocchi era stata da poco superata, anche se al prezzo di notevoli conseguenze politiche per l’Europa, prima fra tutte la definitiva divisione della Germania e l’edificazione del muro di Berlino. La destalinizzazione, l’accordo tra Kennedy e Kruscev dopo la crisi dei missili di Cuba ed un sostanziale implicito accordo tra le due superpotenze per gestire la decolonizzazione del Terzo Mondo, erano quindi le condizioni per una cristallizzazione definitiva degli accordi di Yalta.

Questo scenario fu prontamente colto da Thiriart, il quale ben comprese la strada che l’Europa andava imboccando, nonostante il lavoro politico e diplomatico avesse portato ai risultati incoraggianti di cui si parlava poco sopra. Egli comprese che le vecchie metodologie delle politiche nazionali sarebbero state un freno per il percorso che l’Europa avrebbe dovuto intraprendere: puntò senza mezzi termini il suo il dito accusatore contro coloro che “…sognano un’Europa socialista, altri un’Europa cattolica, altri ancora un’Europa latina o un’Europa germanica. Nell’attesa, tutti questi sognatori accettano passivamente una Europa americana”[8].

Nella visione europeista di Thiriart il principale vulnus che va affrontato non è tanto l’impronta ideologica di quelli che egli considera sedicenti europeisti (riferendosi ai vari capi di governo e di stato del primo nucleo di stati fondatori della Ceca), siano essi tendenzialmente liberali, oppure socialisti o di estrazione cattolica, quanto piuttosto quello costituito dai fautori delle divisioni.

L’Europa delle Patrie, progetto ideologico ancor oggi in voga all’interno di alcuni movimenti di destra europei, fu disprezzata categoricamente da Thiriart, seppur egli sia tutt’oggi seguito da molti simpatizzanti ed attivisti di quei gruppi. Quando il politico belga fondò la Jeune Europe i sentimenti nazionalistici impregnavano molta parte del continente europeo: in Francia l’OAS stava cavalcando il malcontento contro De Gaulle per la perdita dell’Algeria, in Italia le spinte autonomiste sudtirolesi avevano acceso una controffensiva nazionalistica su cui il MSI giocava un ruolo determinante, mentre covavano come sempre l’autonomismo basco, vallone ed irlandese.

Lo spirito nazionalistico ed in particolar modo quello delle piccole patrie era dunque estremamente vivo nel cuore dell’Europa, tant’è che Thiriart considerava questi aspetti decisamente deleteri, sostenendo che “…questi nazionalismi devono essere superati, devono servire da trampolino alla concezione più grande e più nobile della grande Nazione europea. L’amore per la Patria deve divenire l’amore per l’Europa…non vogliamo un’Europa delle Patrie cara ai frazionisti dell’estrema destra, una specie di vestito di Arlecchino malamente ricucito. Questa Europa delle Patrie non è altro che la somma temporanea e precaria dei rancori e delle debolezze.[9]

L’idea di un’unica grande nazione continentale per cui Thiriart sostenne che “… l’Europa confederale è il concubinato; l’Europa federale il fidanzamento; l’Europa Unitaria il matrimonio”[10] rivela un secondo aspetto, quello più marcatamente ideologico del pensiero del sociologo belga, ovvero il suo profondo antiamericanismo e la conseguente avversione all’alleanza militare imposta dalla NATO.

Partendo dall’assunto che “…non esiste Stato senza esercito” e che “lo Stato Europeo Unitario inizierà la sua esistenza storica il giorno in cui si costituirà l’Armata dell’Europa Libera con le sue armi nucleari[11]per Thiriart l’Europa non potrà mai definirsi patria comune fino a che non sia eliminata la condizione di subalternità e dipendenza militare dagli USA.

L’idea dell’equidistanza politica e militare dell’Europa da USA e URSS fu talmente presente nelle considerazioni di Thiriart, che egli addossò la condizione di insicurezza in cui versava il continente europeo nel fatto che gli stati europei si erano acconciati ad accettare il monopolio della deterrenza atomica statunitense, assumendo di fatto il ruolo di “fanteria coloniale del Pentagono o di un poligono di tiro”[12]. Ebbe lo stesso tono anche l’aspra critica a quello che era lo strumento principe della politica estera strategica degli USA, la NATO: “La NATO è un’impostura che fa sì che l’Europa serva da fanteria coloniale agli USA. Noi non vogliamo essere i senegalesi del Pentagono.”[13]

L’aspra critica alla politica remissiva dei governi nazionali europei ed il sostanziale appiattimento dei partiti nazionalisti di destra delle principali nazioni del continente furono oggetto delle serrate valutazioni di Thiriart, che si fece promotore e partecipò a numerosi convegni in giro per l’Europa, al fine di promuovere la nascita di un unico partito nazionale europeo in grado di elaborare una strategia comune per l’edificazione dello Stato Unitario Europeo.

La critica per l’appiattimento sulle posizioni degli USA ebbe un risvolto anche nelle valutazioni economiche di cui Thiriart si fece assertore. Una valutazione estremamente interessante riguarda uno degli anni decisivi per la recente storia europea: il 1956. Potrà sembrare una coincidenza, ma nel breve volgere di qualche settimana, tra l’ottobre ed il novembre del 1956, l’Europa fu giocoforza testimone del clima che la attorniava: la Crisi di Suez e i fatti d’Ungheria rimarcarono in contemporanea che le scelte di Yalta e la divisione in blocchi non potevano essere messe in discussione.

Ed in effetti, a distanza di sei anni, Thiriart ebbe a scrivere che “…non abbiamo dimenticato l’atteggiamento ostile di Washington al tempo dell’affare di Budapest. Nel momento stesso in cui Mosca si impadroniva per la seconda volta dell’Ungheria, gli americani soffocavano l’economia europea togliendole il petrolio del Medio Oriente.”[14]

Dunque, non solo valutazioni di ordine politico e militare furono al centro delle analisi di Thiriart nell’ipotizzare la costruzione dello Stato Unitario Europeo, ma anche gli aspetti economici, giacché la dipendenza economica non avrebbe fatto altro che acuire anche le altre forme di subalternità. Ecco dunque la necessità di “…affermare che l’Europa, all’interno delle sue frontiere e all’interno del suo mercato di 400 milioni di uomini, vivrà in libera economia. Al contrario, nei riguardi di ciò che è fuori dell’Europa, noi daremo la preferenza al libero scambio QUANDO QUESTO SARA’ POSSIBILE, ma non esiteremo ad attuare la più severa autarchia, nel caso contrario. La libera economia nei rapporti con i Paesi extra-europei sarà applicata dopo che le nostre necessità strategiche saranno state garantite…”[15] 

Appare dunque evidente una correlazione strettissima tra indipendenza politica ed indipendenza economica, cosa che portò Thiriart a disseppellire un termine ormai diventato desueto nell’Europa degli anni sessanta, ovvero quello di autarchia. Questo approccio – egli ritenne necessario precisare – potrebbe permettere ad un’Europa unita la vera indipendenza politica a condizione che si intenda guardare al continente nella sua interezza, dunque ad “una Europa unitaria da Brest a Bucareste non un’arena in cui si affrontano due imperialismi stranieri”[16]

Se, dunque, l’approccio politico ed economico di Thiriart è chiaramente eurocentrico, antiamericano ed antisovietico, non di meno lo è sul piano strettamente ideologico e culturale. Su questo specifico versante, dalle valutazioni del sociologo belga emerge quella sorta di superiorità morale e culturale che fino a quel momento aveva sempre contraddistinto una certa intellighenzia europea nei confronti dei costumi e delle abitudini degli abitanti d’oltreoceano.

Ed in effetti è piuttosto tranciante il giudizio di Thiriart, il quale senza mezzi termini ritiene che “…una Nazione le cui radici si affondano in 25 secoli di Storia e che conta più di 400 milioni di uomini altamente civilizzati non deve né ricevere lezioni da giovani barbari presuntuosi né tollerare più a lungo di servir loro da palco per saltimbanchi” e “…di vedersi imporre delle ideologie primitive e ingenue o dei sistemi brutali e dogmatici come il comunismo.”[17]

L’impostazione europeista di Jean Thiriart e del movimento di cui fu fondatore ed animatore si snoda dunque attraverso punti e passaggi ben precisi, sui quali poche possono essere le interpretazioni o, peggio, i vituperati bizantinismi. Nelle pagine asciutte e quasi lapidarie di Europa: un impero di 400 milioni di uomini c’è davvero poco spazio per i fraintendimenti o le mezze misure: l’Europa di Thiriart non può essere una confederazione di piccole patrie e altrettanti piccoli egoismi e nemmeno uno stato federale sul modello statunitense. Nella sua costruzione l’Europa deve essere una sola entità, nazionale, sovrana ed unitaria.

La costruzione di questo organismo deve però seguire un percorso ben preciso e, soprattutto, evitare talune strade che, se imboccate, costituirebbero un grave errore. Il principale degli errori che Thiriart individua sarebbe quello di rinfocolare i nazionalismi con l’individuazione di una sorta di nazione guida o predestinata che possa fungere da catalizzatore verso le altre nazioni: in tal modo la risposta naturale sarebbe quella di veder rinascere altri piccoli nazionalismi, da rifuggire assolutamente, giacché “…l’Europa è uscita da questo cerchio infernale nel 1945[18]

Possiamo dunque riassumere schematicamente le linee guida del pensiero europeista di Thiriart in questi punti:

  1. Architettura istituzionale: stato unitario, esclusione della forma confederale delle “piccole patrie” e dello stato federale.
  2. Politica estera: rivendicazione della piena autonomia dagli USA e ritorno dei paesi dell’Est nel consorzio dei <<fratelli> europei. Negazione della logica di Yalta e sostanziale equidistanza dai blocchi contrapposti.
  3. Politica strategico-militare: opzione per un esercito europeo dotato di una propria deterrenza atomica.
  4. Politica economica: libero mercato interno; libero scambio con l’esterno in condizioni di tutela delle risorse strategiche ma autarchia interna in caso di necessità.
  5. Politica culturale: rifiuto di ogni forma di contaminazione più o meno forzata proveniente da stili di vita e realtà lontane dalla storia e dalla cultura europea.

Un progetto di questo tipo non poteva non richiedere un approccio organizzativo, che lo stesso Thiriart ebbe a definire “rivoluzionario”. Nel tentativo di aggregare uomini e forze per la sua battaglia politica egli dovette giocoforza affrontare tale aspetto, gettando prima di tutto le basi per un’idea di partito che si facesse promotore delle sue intuizioni. Rifiutando – come si è detto – il principio dello stato o della nazione guida del processo unificativo, al fine di evitare una riproposizione dei vecchi schemi delle rivendicazioni nazionalistiche, Thiriart si convinse che la nascita dell’Europa Unita avrebbe potuto partire solo da un Partito Europeo unitario. Un’Europa non trainata da uno stato, bensì da una solida base di uomini raccolti monoliticamente attorno ad un progetto.

Di questa volontà si trova ampia evidenza quando egli sostiene “…la formula di un procedimento di unificazione dell’Europa partendo da un Partito europeo…un partito unitario e non, soprattutto, da un confuso amalgama di “ingredienti nazionalisti” (piccoli nazionalisti) riuniti dagli assai deboli legami di un preteso “coordinamento” o di una fragile “federazione”. Il Partito che rappresenterà l’Europa unitaria dovrà essere – evidentemente – unitario e accentrato anch’esso”[19]

L’idea di un Partito unitario europeo che fungesse da traino politico per la costruzione dell’Europa Nazione aveva un’impronta “rivoluzionaria” proprio perché ben altre erano, già nei primi anni sessanta, le tendenze in atto, soprattutto tra i partiti e negli ambienti della destra nazionalista europea. Quel mondo che “partendo da un ipotetico tipo di nazionalista ideale, si propone, in certi ambienti di estrema destra, una Europa dei “nazionalisti” … è una costruzione della fantasia e di una fantasia malata…Inutile tentare delle acrobazie dialettiche per provare che in fondo tutti i nazionalisti sono fratelli”[20] – quel mondo in realtà non avrebbe potuto svolgere la funzione di collante proprio perché estremamente frammentato ed incapace di una visione unitaria ed indipendente dell’Europa.

In questa condizione di minorità intellettuale e nel rifiuto della “super-nazionalità europea” Thiriart individuava dunque le ragioni del fallimento di coloro che poi “…sono i più docili ad accettare la super-nazionalità americana. Gelosi gli uni degli altri, non si trovano d’accordo se non per trovare un protettore straniero[21]

A distanza di anni si è visto come talune previsioni di Thiriart fossero fondate, mentre altre abbiano segnato il passo. Però, in linea di massima, già nei primi anni sessanta del secolo scorso egli intuì che l’Europa avrebbe avuto un senso compiuto ed una reale forza solo in un progetto integrato e complessivo di unità politica. In quella che egli definì la SETTIMA VIA – L’Europa istituzionale, nata dal Trattato di Roma nel marzo 1957 riconobbe che “…è questa, evidentemente, la meno cattiva. Lo spirito del Trattato è eccellente. Non gli manca che il soffio politico per realizzarsi. Non sono certo i deboli e instabili poteri politici delle attuali piccole Nazioni che potranno realizzare il Trattato di Roma fino al suo compimento. Il Trattato di Roma è un’idea ottima che aspetta di essere fecondata da una forza che nessuno degli attuali regimi democratici è capace di suscitare[22]

È dunque in questa sua conclusione, seppur critica verso la politica degli stati europei, che si ravvisa la profonda fede europeista di Jean Thiriart. Un europeismo forte, virile e responsabile, cui – come vedremo – ben poco seguito sarà dato nei decenni successivi.

La visione federalista di Altiero Spinelli e del MFE

L’opzione europeista di Altiero Spinelli anticipa di due decenni quella di Thiriart e della Jeune Europe, tant’è che il suo federalismo europeo può essere considerato a tutti gli effetti l’antesignano della moderna visione di Europa unita, per la cui edificazione gli stati nazionali avrebbero dovuto accettare sostanziali cessioni di sovranità. Un principio, quest’ultimo, che vide Spinelli ed il MFE impegnati per il suo inserimento all’interno della Costituzione repubblicana, dove trovò posto nell’articolo 11.  

La visione federalista di Spinelli, maturata dopo il suo allontanamento dalle iniziali posizioni comuniste, affonda le proprie radici nel “Manifesto per un’Europa libera e unita”, meglio noto come Manifesto di Ventotene, redatto dallo stesso Spinelli e da altri confinati politici nell’agosto del 1941. Questo documento venne successivamente stampato come Quaderno n.1 del Movimento Federalista Europeo (MFE), fondato sempre da Spinelli durante i quarantacinque giorni del governo di Pietro Badoglio.

L’unità europea è argomento centrale del Manifesto di Ventotene, dove troviamo – come per talune posizioni di Thiriart – un evidente richiamo alla portata rivoluzionaria dell’elaborazione concettuale che si va proponendo. In esso si legge: “Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che han saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo; ma senza lasciarsi irretire dalla prassi politica di nessuna di esse”[23]

In questo passaggio si manifesta palesemente un aspetto centrale della visione europeista di Spinelli e del MFE: la volontà di far convergere verso l’obiettivo tutte le forze politiche ostili al totalitarismo, evitando che questo o quel partito si appropriassero di una sorta di primogenitura e di guida politica. E’ infatti su questo aspetto che Sergio Pistone, profondo conoscitore del pensiero spinelliano, precisa che “…il soggetto politico indispensabile al successo della lotta per la federazione europea deve essere appunto un movimento e non un partito…ciò perché non si tratta di organizzare coloro che vogliono più libertà…bensì di organizzare tutti i simpatizzanti o gli appartenenti ai partiti o alle correnti ideologiche democratiche (dai liberali ai comunisti) che, pur avendo diverse posizioni a proposito della politica economico-sociale, dell’ordine pubblico, scolastica, ecc., da attuare a livello nazionale, e a quello europeo nelle sfere di competenza della futura federazione europea, hanno capito che la realizzazione di quest’ultima rappresenta il prealable …al di sopra delle tradizionali divisioni partitiche, di ideologia e di classe.”[24]

Tornando al Manifesto di Ventotene vi è un punto significativo della costruzione politica ed istituzionale dell’Europa auspicata da Spinelli e dagli altri aderenti al MFE: le considerazioni sul ruolo dei singoli stati, in particolare di Francia, Germania e Gran Bretagna, e della Società delle Nazioni. È questo un passaggio cruciale del pensiero federalista di Spinelli e dei suoi sodali, poiché vi troviamo le fondamenta del loro modello. Si postula l’abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani; si ravvisa l’impossibilità di costruire la futura Europa con la Germania militarista al suo interno, ma pure con una Germania assoggettata al volere altrui; si chiarisce inoltre “…l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni, e rispettando la sovranità assoluta degli Stati partecipanti[25]. Quest’ultimo punto – come vedremo – sarà di centrale importanza alcuni anni dopo, quando si parlerà della Comunità Europea di Difesa (CED).

Nelle posizioni degli estensori del Manifesto di Ventotene non è solo la Germania che uscirà dalla guerra, sia essa vincitrice o sconfitta, ad essere individuata come un ostacolo al disegno federalista europeo, ma anche nazioni come la Francia e la Gran Bretagna. Per queste ultime, tuttavia, appariva già piuttosto evidente una debolezza scaturente dalla fine di quello splendido isolamento che aveva connotato la politica inglese nei secoli passati e dal venir meno dello sciovinismo francese, colpito duramente dalla travolgente azione militare tedesca. In questa ottica e in un certo senso con questa speranza, Spinelli e sodali concepirono l’idea che sarebbe stato possibile “…trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea nei possedimenti coloniali.”[26]

Spinelli e gli altri membri del suo gruppo giunsero persino ad una sorta di visione futuribile del loro disegno europeista, ipotizzando la fine di ogni dinastia regnante, la conseguente costituzione di stati repubblicani sull’intero pianeta, di modo che “…la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”[27]

L’opzione federalista ed il superamento delle sovranità nazionali rappresentarono dunque la via maestra nell’elaborazione del gruppo di Ventotene e del nascituro MFE, il cui traguardo avrebbe dovuto essere quello di “…costituire un saldo Sato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune…”[28]

Un passaggio fondamentale dell’elaborazione europeista di Spinelli lo si trova nella relazione che lo stesso fece in occasione del terzo congresso nazionale del MFE, tenutosi a Firenze nell’aprile del 1949. L’importanza di questo documento è da ricondurre ad un aspetto centrale della visione federalista di Spinelli: la critica alla così detta integrazione funzionalistica. Secondo la dottrina funzionalistica o unionista la costruzione di una casa comune europea avrebbe avuto possibilità di successo non tanto attraverso la limitazione e la cessione di sovranità auspicata dai federalisti, quanto piuttosto con un processo inverso, ovvero con la creazione di organi europei all’interno dei quali i membri dei vari stati nazionali si sarebbero ritrovati per gestire talune specifiche questioni europee.

Alle teorie funzionaliste Spinelli oppose tutta una serie di considerazioni, individuando nell’inefficienza e nell’incapacità di organismi nati in quel periodo le principali ragioni della permanenza delle logiche nazionalistiche che fungevano da ostacolo ad una visione globale della casa comune europea, giacché “…volere l’unità europea ed il mantenimento delle sovranità nazionali, cioè del diritto di ogni stato di fare una politica di disunione…è una contraddizione che nessuna saggezza di statisti può superare”[29]

Sulla scorta di queste valutazioni, che portarono Spinelli a criticare organismi “funzionalisti” come l’O.E.C.E., il Benelux e l’Unione Economica italo-francese, egli ribadì che “Il tema dell’unità europea è un tema che i fatti impongono ogni volta di nuovo. E ogni volta tutti gli interessi nazionalistici si danno da fare per sviarlo verso soluzioni apparenti…Lo stato federale non è il tetto ma il fondamento necessario per elevare il complesso edificio dell’unità europea”[30]

Sempre in occasione dell’intervento al terzo congresso del MFE Spinelli toccò un punto di grande interesse, che in seguito sarebbe divenuto centrale nel dibattito federalista: la questione della difesa dell’Occidente. La sostanziale disunione dei paesi europei indusse Spinelli a considerare che gli Stati Uniti avessero ben compreso questo vulnus che, dal loro punto di vista, non potevano permettersi di accettare, al punto che – egli stigmatizzò – “L’America…ha solennemente affermato quel che era già nei fatti, e con il patto Atlantico ha dichiarato che chi tocca i paesi dell’Europa Occidentale tocca l’America”[31]

È però nel contesto dell’ampio ed articolato dibattito apertosi in occasione della costituzione della CED (Comunità Europea di Difesa) che si deve riscontrare il forte impegno di Altiero Spinelli e del MFE per il raggiungimento di quella che, in quel frangente, pareva essere l’occasione più feconda di efficaci prospettive. Nel lavoro politico e diplomatico di preparazione per il varo della CED, tra il 1950 ed il 1951, l’Italia ebbe un ruolo centrale, grazie al Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi che in quel momento era anche la figura chiave della Democrazia Cristiana, cosa che lo costringeva, all’interno del suo stesso partito, a dover mediare posizioni ben diverse riguardo alla delicata questione che andava aprendosi.

Infatti, non bisogna ignorare che appena pochi mesi prima, nell’aprile del 1949, era stato varato il Patto Atlantico, per il quale il dibattito politico e parlamentare fu estremamente serrato, con posizioni radicalmente opposte anche all’interno del maggior partito italiano.[32]

Dunque, la prospettiva della nascita di una struttura europea di difesa era vista da taluni come un’opportunità da cogliere, soprattutto nell’ottica del mantenimento di una posizione di equidistanza dai due blocchi, ormai in aperto dissidio tra loro.

La posizione iniziale di De Gasperi verso la CED fu di una certa titubanza, probabilmente dovuta alle difficoltà di movimento sullo scenario internazionale per un paese come l’Italia, appena uscito sconfitto dal conflitto mondiale. Successivamente questo atteggiamento piegò verso un impegno fattivo, tanto è vero che nell’agosto del 1951 Altiero Spinelli consegnò allo stesso De Gasperi il “Promemoria sul rapporto provvisorio presentato nel luglio 1951 dalla conferenza per l’organizzazione di una Comunità europea della difesa”.

Non sappiamo se il promemoria di Spinelli fu una relazione richiesta apertamente da De Gasperi a colui che era riconosciuto come uno dei più convinti e preparati europeisti o se, al contrario, fu lo stesso Spinelli, data la sua vicinanza al presidente del consiglio, a dare “suggerimenti” al governo italiano. Ad ogni modo, resta il fatto che il promemoria è un documento di fondamentale importanza per capire la natura più intima del progetto europeista di Spinelli e del MFE.

Prima di analizzare alcuni tratti salienti del promemoria di Spinelli a De Gasperi occorre dire che il documento aveva in sé un doppio aspetto: da un lato cercava di far leva sulle incongruenze del modello dell’integrazione funzionalista e si proponeva di divenire la miccia che avrebbe potuto innescare il processo di nascita dello stato federale, mentre dall’altro evidenziava come la nascita di un organismo di difesa comune europea rendesse automaticamente necessaria un’ integrazione a più ampio spettro, dunque economica, politica e diplomatica.

In merito alla posizione verso il Patto Atlantico, Spinelli non accennò mai di rimanerne al di fuori, pur tuttavia egli, in risposta ai contenuti del Rapporto, ribadì che “L’esercito europeo è organizzato dal Commissario con i mezzi e gli uomini forniti dai singoli Stati, ed è messo a disposizione del Comandante atlantico, come insieme di truppe di Stati tributari e quindi non più veramente sovrani. Non avendo avuto il coraggio di affrontare il problema della creazione di uno Stato europeo…ed avendo tuttavia sottratto agli Stati nazionali l’esercito, cioè l’elemento costitutivo primordiale della sovranità di qualsiasi Stato, il Rapporto arriva alla strana conclusione di stabilire come sovrano effettivo dell’Europa un generale non europeo: il generale atlantico”[33]

Risulta dunque chiaro come in Spinelli non siano ravvisabili quegli elementi di aperta ostilità verso l’alleanza atlantica che sono invece una caratteristica ben tangibile nelle posizioni di Thiriart. In effetti, se Spinelli fa spesso riferimento all’alleanza atlantica per inquadrare il ruolo che in essa avrebbe dovuto avere la CED, nel farlo non svela mai un atteggiamento negativo od ostile, bensì quello di una scontata presa d’atto di una situazione cristallizzata dagli eventi. Al contrario, Thiriart ha un approccio estremamente negativo, ritenendo l’accettazione del ruolo NATO come la manifestazione di una condizione di minorità cui gli Europei si sarebbero uniformati.

Ciò nondimeno, sulle questioni di politica della difesa, rientranti necessariamente in un più ampio discorso integrativo, Spinelli rimase sempre fermo nelle sue convinzioni operative, sostenendo che “…dal momento che si vuole realizzare l’unificazione militare europea, non ci si può limitare a creare forze armate con una sola uniforme e a dar loro una sola bandiera; si deve stabilire, non già come tappa ulteriore, ma come misura inscindibilmente connessa all’unificazione militare, la creazione di uno Stato Europeo, il quale disponga da sovrano dell’esercito europeo e sia capace di prendere insieme tutte le misure di politica estera, economica, fiscale e militare…”[34]

Condensata in queste parole troviamo dunque l’essenza del pensiero federalista europeo di Altiero Spinelli, che possiamo schematicamente riportare di seguito:

  1. Architettura istituzionale: stato federale.
  2. Politica estera: accettazione dell’appartenenza all’area di influenza statunitense ed occidentale con le conseguenze del caso.
  3. Politica strategico-militare: opzione per un esercito europeo espressione dello stato federale europeo, integrato in posizione paritaria nel contesto NATO.
  4. Politica economica: libero mercato ed eliminazione di ogni forma residuale di protezionismo ed autarchia.
  5. Apertura a tutti i partiti (dai comunisti ai liberali) per il raggiungimento dell’obiettivo dell’integrazione federale.

L’eredità di Thiriart e Spinelli

La storia ed il percorso umano e politico delle due figure che abbiamo preso in esame in questo lavoro sono verosimilmente l’emblema di quello scontro ideologico, cui accennavamo quando si è fatto riferimento ad un noto lavoro di Ernst Nolte: essi sono a tutti gli effetti figli dell’Europa del così detto Secolo Breve.  E non ce ne vogliano quei “puristi”, che spesso si trasformano in tifosi da stadio perdendo così il senso dell’analisi dei fatti, ai quali potrà apparire anche azzardato l’accostamento di due uomini così distanti tra loro.

In realtà, l’obiettivo non era quello di cercare una sorta di terreno comune tra due teorici dell’integrazione europea così diversi tra loro: niente di tutto questo, semmai quello di dare al lettore degli strumenti per comprendere – oggi – quanto le visioni e le aspettative di entrambi siano state disattese ed ignorate.

Che ci sia una sorta di damnatio memoriae nei confronti di una personalità come Thiriart è cosa piuttosto comprensibile, se non fosse altro che il suo modello di Stato Europeo Unitario poggia su basi quasi improponibili per i canoni del politicamente corretto; ciò nonostante, la sua visione contraria alla NATO oggi non sarebbe più quella sorta di follia politica che poteva apparire in piena guerra fredda.

Radicalmente diverso è il discorso a riguardo delle teorie federaliste di Spinelli. Egli è tuttora considerato uno dei padri nobili dell’integrazione europea, uno di quegli uomini cui vengono dedicate ancor oggi iniziative, convegni, ecc. e a cui si fa puntuale riferimento ogniqualvolta c’è da parlare di Europa unita. Eppure la sua visione di Europa è stata quasi completamente disattesa.

Perché è accaduto questo?

Dare una risposta secca può essere riduttivo. Se per Thiriart ci sta il concetto di damnatio memoriae, per Spinelli dovremmo propendere per qualcosa di più profondo, che poggia sul fallimento stesso delle idee di Europa politica ed Europa Nazione, sacrificate entrambe sull’altare delle quadrature bancarie e finanziarie. Di sicuro, né l’uno né l’altro avrebbero mai pensato (e nemmeno accettato) che la bussola dei popoli europei sarebbe stata quella dei meccanismi finanziari e che il nocchiero politico avrebbe risieduto nella sede di una banca privata.

01 Febbraio 2022.

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Note

[1] E. Nolte; La guerra civile europea, 1917-1945. Nazionalsocialismo e Bolscevismo; 1987, BUR

[2] N.d.A. Per un approfondimento sull’ERP si rinvia alla copiosa bibliografia e per un approccio interdisciplinare si segnalano i seguenti lavori: B. Steil, Il Piano Marshall. Alle origini della guerra fredda; 2018; Donzelli. F. Fauri; Il Piano Marshall e l’Italia; 2010; Il Mulino. M. Campus, L’Italia, gli Stati Uniti e il Piano Marshall; 2008; Laterza.

[3] N.d.A. Italia, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo e Germania Ovest.

[4] N.d.A. Tesi di Laurea dell’autore, L’Italia e l’ONU, 1945-1955; Università di Perugia, Facoltà di Scienze Politiche, Dipartimento di Studi Storici, A.A.1993\1994, Relatore prof. L. Tosi, controrelatore prof. Ernesto Galli della Loggia.

[5] N.d.A. Il processo di allargamento ha seguito questa cadenza temporale: primo allargamento nel 1973 con l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Gran Bretagna; secondo allargamento nel 1981 con l’ingresso della Grecia; terzo allargamento nel 1986 con l’ingresso di Spagna e Portogallo; nel 1990 ci fu l’estensione alla Germania Est a seguito della riunificazione con la Germania Ovest; quarto allargamento nel 1995 con l’ingresso di Austria, Finlandia e Svezia; quinto allargamento (parte I) nel 2004 con l’ingresso di Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Malta, Polonia, Slovacchia e Slovenia; quinto allargamento (parte II) nel 2007 con l’ingresso di Bulgaria e Romania e infine sesto allargamento nel 2013 con l’ingresso della Croazia.

[6] N.d.A. European Stability Mechanism nato il 27 settembre 2012 come organismo di salvaguardia della stabilità finanziaria dell’area euro è una società pubblica di diritto lussemburghese che si occupa di raccogliere fondi da destinare alla stabilità dei paesi aderenti alla UE, che sono anche i suoi soci.

[7] N.d.A. Il 31 gennaio 2020 la Gran Bretagna, a seguito del referendum sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea, ha abbandonato la UE, diventando il primo caso di defezione.

[8] Jean Thiriart; L’Europa: un impero di 400 milioni di uomini; 1965; Giovanni Volpe editore; p.41

[9] J. Thiriart; ibid; pp.38-39

[10] J. Thiriart; ibid; p.49

[11] J. Thiriart; ibid; p.75

[12] J. Thiriart; ibid; p.73

[13] J. Thiriart; ibid; p.74

[14] J. Thiriart; ibid; p.119

[15] J. Thiriart; ibid; pp.131-132

[16] J. Thiriart; ibid; pp.134-152

[17] J. Thiriart; ibid; p.153

[18] J. Thiriart; ibid; p.164

[19] J. Thiriart; ibid; p.163

[20] J. Thiriart; ibid; p.180

[21] J. Thiriart; ibid; p.183

[22] J. Thiriart; ibid; pp.214-215

[23] Il Manifesto di Ventotene (1941); in S. Pistone, l’Italia e L’unità europea; 1982; Loescher Editore; p.108

[24] S. Pistone, l’Italia e L’unità europea; 1982; Loescher Editore; p.86.

[25] Il Manifesto di Ventotene (1941); in S. Pistone, ibid.; p.109.

[26] Il Manifesto di Ventotene (1941); in S. Pistone, ibid.; p.110.

[27] Il Manifesto di Ventotene (1941); in S. Pistone, ibid.; p.110.

[28] Il Manifesto di Ventotene (1941); in S. Pistone, ibid.; p.111.

[29] A. Spinelli; Discorso al terzo congresso nazionale del MFE, in S. Pistone; ibid.; p.189.

[30] A. Spinelli; Discorso al terzo congresso nazionale del MFE, in S. Pistone; ibid.; p.191.

[31] A. Spinelli; Discorso al terzo congresso nazionale del MFE, in S. Pistone; ibid.; p.188.

[32] Per il dibattito sull’adesione dell’Italia al Patto Atlantico si rimanda alla ricca bibliografia esistente, segnalando in particolare il testo di E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali. II. Gli anni della guerra fredda 1946-1990; Editori Laterza; 2015

[33] A. Spinelli; Promemoria sul rapporto provvisorio presentato nel luglio 1951 dalla conferenza per l’organizzazione di una Comunità europea della difesa, in S. Pistone; ibid.; p.193.

[34] A. Spinelli; Promemoria sul rapporto provvisorio presentato nel luglio 1951 dalla conferenza per l’organizzazione di una Comunità europea della difesa, in S. Pistone; ibid.; p.194.