La legislazione nobiliare del Granducato di Toscana e l’Ordine di Santo Stefano Papa e Martire

Simone Castronovo

Lo scopo di questo articolo è di trattare brevemente il diritto nobiliare del Granducato di Toscana nonché la collocazione all’interno della suddetta normativa dell’Ordine di Santo Stefano papa e martire; nello specifico sarà trattata l’ultima legislazione in vigore ovvero quella del 1750.

La “legge per regolamento della nobiltà” del 1750, voluta dal granduca Francesco Stefano di Lorena chiude una serie di importanti riforme nel campo nobiliare volute dalla dinastia dei Lorena iniziata cona la regolamentazione dei fidecommessi e della manomorta del 1747, la quale prevedeva, tra l’altro, l’interdizione dall’istituzione di un fedecommesso ai nobili oltre la quarta generazione e la preclusione dall’istituto per i non nobili[1], per proseguire poi con l’abolizione del feudo del 1749 e l’applicazione di alcune imposte al clero.

Per comprendere le ragioni connesse alle riforme volute dalla dinastia Lorena è fondamentale riassumere gli avvenimenti connessi al Granducato di Toscana stesso.

Il Granducato nasce formalmente il 27 agosto 1569, quando papa Pio V, con propria bolla, conferisce il titolo di Granduca di Toscana a Cosimo de Medici, il quale era reduce da una campagna militare che aveva avuto come risultato la formazione del futuro granducato.

Tra le tappe fondamentali dell’opera militare e politica di Cosimo vi sarà la battaglia di Scannagallo del 1554 contro la Repubblica di Siena, la quale dopo la pace di Cateau-Cambrésis del 1559, sarà assoggettata a Cosimo pur mantenendo dei privilegi di natura amministrativa, il cosiddetto “Stato Nuovo”.

Il Granducato di Toscana rimarrà assoggettato ai Medici fino alla morte di Gian Gastone de Medici avvenuta nel 1737, il quale non avendo eredi porrà fine alla dinastia granducale medicea.

Con la morte di Gian Gastone il Granducato di Toscana passò all’imperatore Francesco Stefano di Lorena, il quale rinunciò al suo titolo di Duca di Lorena in favore di quello di Granduca di Toscana. Francesco Stefano sposò Maria Teresa d’Austria, regina di Boemia e d’Ungheria e diede vita alla dinastia Asburgo-Lorena.

In merito all’ordinamento nobiliare toscano ante 1750, questo si reggeva su una moltitudine di regolamentazioni che si succedevano fin dall’epoca comunale e repubblicana, le quali vedevano un’aristocrazia cittadina formatasi nel corso dei secoli, attraverso l’esclusivo esercizio delle massime cariche pubbliche[2]. Nel contesto toscano erano quasi del tutto assenti i principi disciplinatori concernenti il “sangue” o la “nascita”, i quali lasciavano campo ad altri elementi come ad esempio il patrimonio. Questa peculiarità rendeva la nobiltà toscana in netta contrapposizione con quella tedesca o spagnola.

La nobiltà toscana presiedeva un elevato numero di magistrature e si caratterizzava da una fitta rete di clientele locali, elementi debitamente rilevati dal barone di Wachtendonck nella sua corrispondenza del  12 marzo 1737 con il granduca Francesco. Tali elementi erano considerati negativamente poiché, oltre che entrare in contrasto con l’esercizio centralizzato del potere da parte del sovrano, erano individuati quali cause della crisi economica del granducato poiché il ceto dirigente perseguiva interessi di natura personale a discapito di quelli dello stato.

In conclusione il nuovo sovrano si trovava di fronte una nobiltà che oltre che essere diametralmente opposta a quella europea non poteva, nella maggior parte dei casi, contribuire al pieno esercizio delle prerogative dei Lorena sul territorio toscano e questa fu sicuramente una delle ragioni principali che portarono ad una regolamentazione unitaria della nobiltà e della cittadinanza.

Lo studioso Jean-Pierre Labatut nel descrivere il nobile, lo definisce come colui che agisce in al di fuori dei bisogni elementari del vivere, quindi non compie alcun lavoro manuale; ma non solo, per il Labatut le qualità del nobile sono possedute solo da una stretta cerchia di individui[3]. Tale visione non è solo quella del Labatut, ma era quella comune ai teorici europei dal 500 in poi, nonché dell’arciduca Francesco. Emerge chiaramente che l’accesso alle magistrature, e di conseguenza alla nobiltà, su base patrimoniale nonché la conseguente finalità alla conservazione nonché all’accrescimento di questo è in stretta contrapposizione al concetto canonico della nobiltà stessa.

L’organizzazione caotica della nobiltà toscana, nonché la sua netta contrapposizione con i canoni nobiliari europei, costituiranno un incentivo alla promulgazione della legge del 1750, inoltre, come ampliamente argomentato dalla Aglietti[4], in Toscana esistevano due tipi di nobiltà: una di tradizione comunale e repubblicana, che si manifestava nell’esercizio delle magistrature locali, e l’altra di derivazione medicea che faceva capo all’Ordine di Santo Stefano, ordine religioso-militare voluto dalla dinastia medicea, che si poneva anche in contrapposizione alla vecchia aristocrazia che si era affermata sull’esercizio, in forma monopolistica, del potere attraverso le magistrature locali.

Essendo la nobiltà toscana, di fatto, detentrice di un potere politico esercitato in forma decentrata, rappresentava un ulteriore elemento di divergenza con l’idea di stato e di potere dei Lorena, i quali concepivano lo stesso potere in una forma centralizzata; su tali premesse nacque una seconda necessità, ossia quella di riformare la classe dirigente toscana.

La legge del 1750 andava innanzitutto a definire chi erano i nobili, essa li identificava tra chi:

  1. possedeva o aveva posseduto feudi nobili;
  2. era membro (o lo sarebbe diventato) dell’Ordine di Santo Stefano;
  3. aveva ottenuto la nobiltà in forza di un diploma granducale;
  4. coloro che potevano essere registrati negli elenchi delle città nobili della Toscana

Relativamente agli elenchi delle città nobili di Toscana essi dovevano essere istituiti nelle città nobili di Firenze, Siena, Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra, Cortona, San Sepolcro, Montepulciano, Colle, San Miniato, Prato, Livorno e Pescia. La norma prevedeva che in tali città dovevano essere registrate tutte le famiglie nobili.

In merito ai registri delle città nobili la stessa legge prevedeva che le città più “antiche”, cioè Firenze, Siena, Pisa, Pistoia, Arezzo, Volterra e Cortona, dividessero tali registri in due sezioni, la prima dedicata ai patrizi, ovvero i membri dell’Ordine di Santo Stefano, nonché coloro che potevano dimostrare il possesso degli altri requisiti di nobiltà, dettati dalla legge, per un periodo non inferiore ai 200 anni, e la “sezione” dei nobili, ovvero quella dedicata ai nobili che non erano membri dell’Ordine di Santo Stefano o che non erano in possesso del requisito temporale dei 200 anni.

Le restanti città nobili dovevano iscrivere tutti coloro in possesso dei requisiti dettati dalla legge in un’unica categoria; le due categorie non godevano di diversi privilegi, se non quello di precedenza che spettava ai patrizi, nelle pubbliche funzioni. In merito al riconoscimento, e anche a tutte le vertenze relative ai titoli nobiliari, la legge riconosceva esclusiva competenza al sovrano.

La legge del 1750 non si limitava solo a regolamentare l’acquisizione dello status nobiliare, essa si occupava anche dei casi in cui questo veniva meno, ovvero la condanna per alcuni delitti, l’esercizio delle “arti vili” ovvero quelle di “bottega”, quella di chirurgo, procuratore e notaio, mentre non ricadevano in questa categoria la professione medica e quella di avvocato e l’esercizio delle belle arti. Nel 1790 venne approvata una legge che andava ad escludere tra le cause di decadenza dal rango nobiliare l’esercizio della professione notarile e quella di cancelliere.

Non era motivo di decadenza il matrimonio tra un nobile e un non nobile, anzi in tal caso la nobiltà si trasmetteva anche ai figli[5].

La legge sulla nobiltà non fu particolarmente apprezzata dalla vecchia classe nobiliare toscana, anche in connessione di tutta una serie di importanti riforme del Granducato, che si succederanno nel tempo e che andarono a limitare fortemente il potere esercitato dai nobili, attraverso il monopolio delle magistrature cittadine; di contro venne riservato un trattamento di privilegio ai membri dell’Ordine di Santo Stefano ai quali viene riconosciuto il rango nobiliare dal nuovo testo legislativo.

L’Ordine fu fondato nel 1562 con una funzione prevalentemente militare e marittima, all’avvento dei Lorena l’attività militare dei cavalieri di Santo Stefano era da tempo stata ridimensionata fino a perderne quasi del tutto la rilevanza. L’ultimo impegno bellico fu, infatti, quello della guerra contro i turchi nel periodo 1684 – 1688; nel XVIII secolo l’Ordine contava 1000 membri dei quali l’80% era proveniente dalla Toscana, tali membri erano provenienti dai ceti aristocratici cittadini[6], inoltre a livello patrimoniale l’Ordine aveva accumulato un ingente patrimonio composto anche da beni come fattorie, terreni e titoli di debito pubblico; tuttavia questo patrimonio era insufficiente per far fronte alle spese dell’Ordine stesso. Nel 1738 Francesco Stefano di Lorena diventò Gran Maestro dell’Ordine trovandosi a capo di un’istituzione che, sebbene in sofferenza finanziaria dovuta anche ad una cattiva gestione delle proprie finanze, aveva un peso sociale decisamente rilevante. Infatti l’Ordine aggregava gran parte dell’aristocrazia toscana e con essa i relativi interessi economici; in questa ottica i Lorena, nella loro volontà di riformare lo Stato, riformarono anche l’ordine attribuendogli un ruolo quale istituzione nobiliare e nobilitante, così come sarà confermato dalla legge del 1750.

Uno dei punti nevralgici della riforma dell’Ordine sarà l’abbandono della funzione militare, difatti in questo modo non avrebbero più gravato sulle loro finanze i costi di mantenimento di due galee e dei relativi equipaggi. La riforma dell’Ordine lo porterà di fatto ad assumere i connotati tipici dei coevi ordini cavallereschi europei.

In conclusione si può affermare che l’Ordine fu utilizzato dai Lorena, anche, quale vettore per attuare una profonda riforma della nobiltà toscana andando a limitare profondamente le prerogative dei ceti aristocratici cittadini di origine comunale e repubblicana.

20.01.2022

[1] Laura Marchi, La legge toscana sui fedecommessi (1747) : il processo di autorizzazione degli « scorpori » dei beni fedecommessi, Mélanges de l’École française de Rome – Italie et Méditerranée modernes et contemporaines >> ,124-2, 2012, mis en ligne le 11 juillet 2013, consulté le 29 décembre 2021. URL : http://journals.openedition.org/mefrim/834 ; DOI : https://doi.org/10.4000/mefrim.834,

[2] Si veda Marcella Aglietti, Le tre nobiltà, 2003

[3] Jean-Pierre Labatut, Le nobiltà europee. Dal XV al XVIII secolo , Bologna 1982

[4] Aglietti, 2003

[5] Rignan Di Isacco, Saggio di un manuale del diritto pubblico interno della Toscana, Firenze 1857

[6] AA.VV., L’Ordine di Santo Stefano nella Toscana dei Lorena, Roma 1992